6 aprile 2011, la fiaccolata illumina una città invisibile

L’AQUILA – 5 aprile 2011. Sono sul treno che arriverà a destinazione intorno alle 18. Oltre il finestrino appannato, osservo i paesaggi che si susseguono, fondendosi come fossero uno solo; un’unica distesa verde, ricoperta a tratti da una spruzzata di fiori giallo acceso e interrotta di tanto in tanto da un paio di case. Appena arriviamo a destinazione mi sforzo di assumere un atteggiamento imparziale, cercando di dimenticare tutto ciò che ho visto e sentito sulla “città dimenticata” nei due anni che hanno seguito il sisma; come se mi avessero portata, bendata e con le orecchie tappate, in una realtà totalmente sconosciuta.

Allora lo faccio. Mi tappo il naso e mi immergo totalmente; tra le sue mura, sotto il suo cielo limpido. E, affamata di immagini, spalanco gli occhi. Bruciano.

Davanti a noi quella che prima del terremoto era la Casa dello Studente. All’improvviso chiudo gli occhi, non riesco a sopportare quelle immagini. All’ultimo piano c’è una stanza senza parete, quella che si affaccia sulla strada; e al suo interno, sulla sinistra, una scrivania marrone si offre alla vista di tutti. Un pezzo di vita violato, i suoi resti offerti al mondo.

Proseguiamo.

Pareti sfondate, finestre inesistenti, pezzi di edifici crollati giacciono sulla strada, in attesa.

Sono in una città che non c’è; in una scatola vuota. Ciò che è rimasto è stato abbandonato a se stesso e sa di buio. Freddo. Paura. Incubo. Morte. Nessuno è intervenuto a rimettere in sesto il cuore de L’Aquila; e persino i lavori che avrebbero richiesto una dose minima di tempo e di risorse sono stati rimandati. In questi due anni quasi niente è cambiato; primi fra tutti, lo dicono gli aquilani, cittadini del passato, di una città ormai invisibile.

Ogni casa che porta i segni del terremoto sembra rivelare tristemente le promesse mancate del governo; “Il 100% delle abitazioni sarà ricostruito dallo Stato e molte case saranno abitabili già fra trenta giorni” ha affermato Silvio Berlusconi nell’aprile del 2009. Ma dove sono le case di cui ha parlato a lungo? Si tratta forse di quei pochi edifici fuori città, che non basterebbero ad accogliere neanche un terzo della popolazione aquilana? Quelli con le pareti spoglie, a cui è vietato appendere qualsiasi ricordo? Quelli “a breve scadenza”, pieni di pentolame e utensili vari che dovranno essere restituiti, al momento della misteriosa riconsegna della casa?

Intanto, mentre andiamo a ritroso nel tempo, lungo le vie violentate da una notte di puro terrore, per arrivare finalmente chi a ricordare e chi a immaginare le 3.32 di quel tragico 6 aprile, finalmente il sole cala e la gente comincia a marciare con le fiaccole in mano, a illuminare le vie del centro. Ed ecco l’interminabile processione luminosa che, sfidando ricordi e paure, rivive con coraggio il dolore esploso due anni prima. Il centro de L’Aquila sembra una casa disabitata e buia, di quelle che la notte fanno venire i brividi; ma riscaldati e sorretti dalla moltitudine, il timore si affievolisce quasi fino a scomparire e le ore diventano un tempo infinito, una notte di veglia ed emozioni contrastanti. Dormire sarebbe un sacrilegio.

Lentamente ci avviciniamo in piazza del Duomo, dove trecentonove rintocchi di campana, uno per ogni vittima, ci trafiggeranno. Tutti aspettano quell’istante, quando il primo suono, secco e cupo, li porterà indietro nel tempo, e allora sarà dolore; forse meno intenso rispetto a due anni fa, un dolore “più composto”: ma dolore. Ancora difficile da sopportare, da gestire dentro la carne, da fermare sotto la pelle.

Primo rintocco, la piazza si trasforma in una bolla incolore di silenzio; socchiudo gli occhi e faccio un respiro profondo. Allora mi vengono in mente una serie di scene, un puzzle di fantasie e brevi flash rubati al telegiornale: qualcuno che corre disperatamente in una strada illuminata dalla luna; urla; il pianto di un bambino; un castello che si disintegra, secondo dopo secondo, e diventa un mucchio di cenere che con un soffio il vento spazza via. Ogni rintocco porta con sé un pezzo di tragedia, raccontando la sofferenza di una delle trecentonove storie. Mi stropiccio gli occhi, nel tentativo di far volare via quella sensazione di pesantezza mista a sconforto, per rendere lo sguardo più lucido e consapevole; intorno a me un insieme di persone sotto una lastra di cielo nero: alcune hanno il capo chino, altre si tengono la testa tra le mani e soffocano il pianto, altre ancora fissano il vuoto con gli occhi spalancati come per trattenere le lacrime. Le campane continuano a suonare e, colpo dopo colpo, a infilzare i nostri corpi e ad affollarci le menti di fughe verso il vuoto, di corpi sepolti sotto le macerie di una vita, di lamenti insopportabilmente eterni, di interrogativi senza risposte, di rabbia ingovernabile.

Infatti, se ci si sofferma a riflettere, sembra impossibile che quella notte del 2009 non sia stata soltanto un brutto sogno, ma un incubo reale; e subito dopo viene da chiedersi se tutto questo dolore si potesse in qualche modo evitare. Una catena di “se” si rincorrono senza tregua, lasciando soltanto un senso d’impotenza che scava un vuoto incolmabile dentro il petto: se solo quelle case fossero state costruite tenendo conto delle caratteristiche del luogo; se solo qualcuno avesse pensato alle possibili conseguenze; se solo a qualcuno gliene fosse importato di queste conseguenze. E invece no, tutto il contrario: prima del dramma il più alto menefreghismo, e poi lo sfruttamento del dolore a scopo di lucro. Perché la miracolosa e repentina rinascita de L’Aquila, della quale ha tanto parlato il nostro presidente del Consiglio, è solo una delle numerose favole che ci ha raccontato e, proprio per sua natura, è solita incantare i lettori/ascoltatori al momento della narrazione, ma si capisce bene che è basata essenzialmente sull’immaginazione.

E nella realtà di quella favola non ne rimane niente, eccetto le fantasie e le emozioni di chi la legge o la ascolta. In questo caso solo rabbia e dolore; e una città-fanstasma di persone che non vogliono dimenticare ma, al tempo stesso, ne hanno un bisogno disperato.

Michela Silla.

4 Risposte a “6 aprile 2011, la fiaccolata illumina una città invisibile”

  1. hai ragione, solo favole…ma per i bisogni chi ci pensa ??? propaganda e basta !

  2. rimboccarsi le maniche e trovare le risorse…..ma non mi sembra il verso

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