La gioventù perduta dello zoo di Berlino

Film sulla droga se ne sono fatti a bizzeffe. Ma Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, tratto dal bestseller di Christiane F., non si rifà a stereotipi cinematografici – a differenza di Trainspotting, tratto anch’esso da un libro (di Irvine Welsh).
In una Berlino che richiama il sottosuolo di Dostoevskij, Christiane è trascinata senza volerlo nel degrado di una gioventù senza valori, vuota – e che per riempire questo vuoto sceglie di drogarsi. Così la droga non è una scelta ma la chiave d’accesso per entrare in una comunità che non sa in che modo provare emozioni. È questo che accade a Christiane: condotta da un’amica in un locale frequentato da drogati, è costretta a drogarsi per provare empatia con Detlef. “Volevo provare quello che provi tu”, gli dice. I drogati si prendono, dunque, per mano, fino ad annichilirsi, a umiliarsi, a perdere la propria dignità.
Il film mostra la Berlino più devastata. Sembra che non ci sia nessuno in grado di salvare questi ragazzi senza futuro, che si bruciano senza un motivo ben preciso. E Christiane – così come tutti gli altri – crede che sia facile uscirne. “Posso smettere quando voglio”, dicono. “Solo una dose e poi basta” – ma sono le tipiche frasi del tossicodipendente. D’altronde se fosse davvero facile smettere o perlomeno se davvero fossero in grado di dire basta alla loro lenta autodistruzione, avrebbero potuto altrettanto facilmente rifiutare la prima dose.
Christine si droga perché solo così potrà frequentare i suoi coetanei. Non è una scelta ma una mera omologazione. La droga non è quindi solo una dipendenza ma una vera e propria malattia contagiosa che conduce all’autoannullamento.
Bisogna capire perché questi ragazzi si gettino nel tunnel della droga. La famiglia di Christiane è inesistente: i suoi genitori sono separati e sua madre ha un altro uomo, mentre sua sorella va a vivere con il padre. È dunque l’assenza della famiglia, l’assenza di affetto che conduce poi a sfogare questa rabbia repressa nella droga. Degli altri ragazzi non si sa nulla: tutta la vicenda è narrata dal punto di vista di Christiane, che non è una martire ma emblema di una gioventù incapace di reagire e di distinguersi dalla massa. È questa la nota più dolente: nessun personaggio positivo, nessuno in grado di non cadere nella trappola e di ammettere non la propria diversità rispetto al conformismo di chi si droga ma la propria normalità. Siamo dunque al paradosso, dove chi non si droga – come Christiane all’inizio del film – è diverso e quindi non può essere accettato dalla comunità.
Pian piano Christiane si distrugge, trascinata anche da Detlef, che la nota solo quando anche lei inizia a drogarsi. Più che di una gioventù bruciata potremmo parlare di gioventù perduta, di una gioventù smarritasi nel tunnel della droga in cui entra anche a causa della mancanza di una famiglia – come nel caso di Christiane – o semplicemente per mancanza di forza e di voglia di affermarsi.