Napolitano gela il Cavaliere “Voto? Io apro le consultazioni”

ROMA – È la resa. Alle sette di sera, nello studio del capo dello Stato, un Berlusconi esausto ammette di aver perduto la sua ultima partita. “Le confesso signor Presidente che non me l’aspettavo. Né con questi numeri né per i nomi di chi mi ha tradito, tutti miei fedelissimi come Antonione”. Il premier prosegue nel suo sfogo davanti a Napolitano, Letta gli è seduto accanto. “Avevo pensato di venire qui a chiederle un nuovo passaggio di fiducia in Parlamento, ma abbiamo preso degli impegni in Europa e non possiamo permetterci un braccio di ferro sulle mie dimissioni. Sarebbe un pessimo segnale ai mercati, preferisco chiudere in buona coscienza”. La parola “dimissioni” non viene mai pronunciata, il Cavaliere proprio non ce la fa. Ma inevitabilmente arriva l’annuncio: “Dopo la legge di stabilità mi farò da parte. È vero, non ho più i numeri per andare avanti”. È una mossa dettata da una paura. Berlusconi teme infatti che Napolitano potrebbe affidare a un altro governo il compito di portare a casa gli impegni presi con Bruxelles. Un “governo europeo”, guidato da Mario Monti, con la lettera di Berlusconi all’Ue come programma. Una “trappola” per il Pdl che, a quel punto, non potrebbe dire di no.

Napolitano prende atto della “consapevolezza” del premier di essere arrivato al capolinea, sulla base di un risultato parlamentare senza appello. Ascolta ma non è sorpreso. Il capo dello Stato, già dalla mattina, nel giro di colloqui con la Lega e con le forze d’opposizione, aveva avvertito: se davvero sul rendiconto la maggioranza si dissolve, a quel punto le dimissioni del Cavaliere saranno un “gesto obbligato”. Del resto anche il Carroccio a Napolitano lo aveva fatto intendere chiaramente: “Se non ci sono più i voti per andare avanti e Berlusconi fa finta di niente siamo pronti a ritirare i nostri ministri dal governo”. Un diktat senza vie d’uscita. Quello che preme a Napolitano è il messaggio da dare all’Europa con la rapida approvazione della legge di stabilità. E per questo sono arrivate al Colle le garanzie del Pd e del terzo polo: pronti all’approvazione lampo, come ad agosto con la manovra, se Berlusconi prima annuncia le sue dimissioni. Con questa assicurazione in tasca, certo così che non ci sarà uno slittamento dei tempi, il capo dello Stato ha concesso a Berlusconi di lasciare palazzo Chigi solo dopo l’approvazione della manovra europea. E con ulteriori “caveat” al presidente del Consiglio: “La legge di stabilità credo debba essere ridotta all’essenziale, limitandoci a ciò che ci chiede l’Europa”. Un modo per evitare di replicare quel decreto “omnibus” con cui il Cavaliere si era presentato la settimana scorsa al Colle e restituito al mittente da Napolitano perché infarcito di troppe norme estranee al risanamento. “In questo modo – propone il capo dello Stato – si potrebbe approvare in maniera definitiva entro la fine del mese”. A Berlusconi, che vorrebbe invece tirarla per le lunghe per arrivare a metà dicembre in modo da far saltare il governo tecnico, non resta altro che abbozzare. E dopo le dimissioni che succederà? Qui le strade di Berlusconi e di Napolitano si dividono.

“Per me – prova a forzare il Cavaliere – questo percorso porta solo a elezioni anticipate il prima possibile, anche a febbraio. Non daremo mai il nostro assenso a un governo tecnico o di larghe intese. Sarebbe un ribaltone”. Ma Napolitano lo gela. “Per me questo percorso, dopo le sue dimissioni, porta all’apertura delle consultazioni con tutti i partiti. Sia quelli che hanno vinto le elezioni del 2008, e dentro ci sono anche forze come il Fli, sia i partiti che stanno all’opposizione”. Il discorso è chiarissimo. Vuol dire che, pur riconoscendo alla maggioranza un ruolo chiave nelle consultazioni che si apriranno, il capo dello Stato apre la porta a un governo di larghe intese. E che le elezioni anticipate saranno proprio l’ultima carta che resterà sul tavolo. Per Berlusconi è una doccia fredda, si rende conto che dopo la sua uscita da palazzo Chigi si aprirà una partita interamente nelle mani del Colle.
Quaranta minuti di colloquio. Alla fine Napolitano personalmente stende il comunicato dell’addio, chiarendo senza possibili scappatoie che “il presidente del Consiglio rimetterà il suo mandato nelle mani del capo dello Stato”. E nel congedarlo gli anticipa il senso della nota, che tuttavia sarà diffusa dal Quirinale senza che al premier venga riletta.

Napolitano dunque si tiene le mani libere. Dando così corpo ai peggiori timori di Berlusconi sull’arrivo di un governo di transizione affidato a Monti. Un fantasma che aveva anche animato la drammatica riunione convocata dal Cavaliere a Montecitorio subito dopo il voto. Facce lunghe, toni concitati. I ministri del Pdl lo supplicano di dare le dimissioni subito, “questa sera stessa”, in modo da arrivare all’indicazione di un uomo del Pdl per l’incarico: Letta, Alfano oppure Schifani. “Se facciamo così – assicura Verdini – possiamo tornare facilmente a 320 deputati”. Ma, quando Berlusconi si ritrova in auto da solo con Gianni Letta, verso il Quirinale, il sottosegretario smonta anche l’ultima speranza: “Silvio, dubito che Napolitano possa darti oggi garanzie sul nome del tuo successore. E poi io non sono disponibile”.