Parmalat, condannati Geronzi e Arpe

E’ stato condannato a cinque anni di reclusione l’ex banchiere Cesare Geronzi imputato per bancarotta fraudolenta e usura nell’ambito del processo Ciappazzi, nato da una costola dell’inchiesta sul crac Parmalat del 2003. Quattro anni per Alberto Giordano, all’epoca dirigente di Capitalia. Tre anni e sette mesi per Matteo Arpe, nel 2002 ad del gruppo.
Il tribunale di Parma ha inoltre condannato a tre anni e tre mesi gli allora manager di Capitalia Eugenio Favale e Antonio Muto. Stessa pena per un altro ex dirigente della banca, Alberto Monza.

CONDANNATI INTERDETTI PER 10 ANNI – Il presidente del collegio giudicante, Pasquale Pantalone, ha stabilito che gli imputati non potranno ricoprire incarichi dirigenziali o essere titolari di un’attività di impresa 10 anni e che l’interdizione dai pubblici uffici sarà invece di cinque anni. Il risarcimento del danno cagionato alle parti civili (tra questi centinaia di risparmiatori che avevano investito in titoli o obbligazioni del gruppo di Collecchio) sarà determinato da un giudizio civile che vedrà tra i responsabili l’istituto Unicredit e Banca di Roma in solido con gli imputati giudicati in primo grado dal Tribunale di Parma.

Al centro del processo penale di Parma c’era l’affare Ciappazzi, combinato secondo l’accusa tra il gruppo Ciarrapico e la Parmalat di Calisto Tanzi su pressione illecita di Cesare Geronzi che, all’epoca dei fatti (era il 2002), era il numero uno del gruppo bancario romano. Stando all’accusa, Tanzi avrebbe acquistato la società di acque minerali siciliane che versava in uno stato di completo sfacelo, ad un prezzo gonfiato al solo scopo di ottenere dal gruppo Capitalia un finanziamento da 50 milioni di euro che sarebbe servito a tenere a galla il settore turismo della Parmalat. La banca, dal canto suo, avrebbe consentito al gruppo Ciarrapico di incamerare i soldi della vendita e di conseguenza far rientrare in Banca di Roma (poi Capitalia) i fondi di un finanziamento concesso anni prima. I difensori di Geronzi hanno sempre negato tutti gli addebiti. Le altre condanne hanno riguardato i manager di Capitalia Riccardo Tristano, tre anni e quattro mesi, e Luigi Giove, tre anni.

LEGALE GERONZI, SENTENZA INGIUSTA – “Ci sembra una sentenza profondamente ingiusta in primo luogo perché questo tribunale ha ribadito che i banchieri rispondono di tutto ciò che accade in imprese grandi e articolate come lo era la Parmalat di Calisto Tanzi e in secondo luogo perché la sentenza chiude gli occhi sulle risultanze del dibattimento”. Così dopo la lettura della condanna a cinque anni per Cesare Geronzi il legale dell’ex banchiere Ennio Amodio parlando con i giornalisti. “Non c’erano risultanze che vedevano Geronzi come causale dei fatti oggetto del processo – ha continuato l’avvocato Amodio – non mi resta che concludere che la giustizia in questo paese é quella dei pm perché i tribunali manifestano un’adesione acritica alle tesi della pubblica accusa”. L’accusa aveva chiesto per Geronzi una pena di sette anni non riconoscendogli le attenuanti generiche. Il tribunale di Parma ha anche stabilito per sette degli otto imputati a processo una provvisionale da pagare alle parti civili, tutti risparmiatori, che ammonta al 4% del danno.

In una nota, i legali di Geronzi, gli avvocati Amodio e Vassalli, ribadiscono le ragioni per cui ritengono ingiusta la sentenza di condanna nei confronti del loro assistito. “La prima – scrivono – consiste nell’aver equiparato erroneamente la posizione del banchiere a quella dell’imprenditore, come se chi finanzia un’impresa potesse essere a conoscenza degli illeciti posti in essere dalla società emersi successivamente in relazione alla operatività di Parmalat. In secondo luogo – aggiungono – questa sentenza chiude gli occhi di fronte ai risultati acquisiti in un lungo dibattimento. Non ci sono testimoni, documenti e consulenze tecniche che abbiano confermato il benché minimo contributo personale di Cesare Geronzi al finanziamento di Parmalat e all’acquisto dell’azienda Ciappazzi”. “Se il processo deve ridursi in un’acritica adesione alle tesi dell’accusa, allora – ribadiscono i legali – è meglio riconoscere apertamente che a fare giustizia nel nostro Paese sono i Pubblici ministeri”. “Confidiamo – conclude la nota – che la Corte d’Appello sappia valutare quanto è emerso nel processo con la necessaria cura ristabilendo la verità dei fatti”.