Il compleanno felice del signor De Niro

Cinema: il compleanno felice del signor De NiroDall’ottobre 2004 lo possiamo chiamare Grand’Ufficiale della Repubblica Italiana per iniziativa del Presidente della Repubblica; dal 2006, alla prima edizione della Festa del Cinema di Roma, è diventato anche cittadino italiano.
Robert De Niro non si sottrae, nonostante il carattere schivo, ed è anzi noto che a quel doppio passaporto teneva moltissimo, quasi un attestato di fedeltà alla memoria dei nonni, i molisani Giovanni de Niro e Angelina Mercurio, emigrati a New York. Suo padre, Robert Senior, faceva invece l’artista,aveva sposato una poetessa e pittrice di sangue inglese e lasciò la famiglia poco dopo la Guerra, quando il ragazzino (nato il 17 agosto del 1943) muoveva i primi passi a Little Italy.

Pessimo studente sui banchi, ottimo allievo sulla strada, Robert De Niro trovò nel vicino Martin Scorsese, appena un anno più vecchio di lui, l’amico d’elezione. Ha la fortuna di poter mettere per la prima volta il naso su un set con una piccola parte (non accreditata) in “Tre camere a Manhattan” di Marcel Carné (1965). Ma è tre anni dopo che fa il suo ingresso nel cinema, e dalla porta principale. Un altro “figlio di Little Italy” come Brian De Palma (in verità nato a Newark), lo sceglie come protagonista per “Ciao America” e “Hi Mom!”. Sono due film quasi sperimentali, nati fuori dal circuito commerciale, ma diventano parte della “Nuova Hollywood” che si impone già prepotente. Il maestro di tutti rimane Roger Corman (che infatti ingaggia De Niro ne “Il clan dei Barker”, 1970), ma a fare la differenza è il “clan” degli italo-americani, ricchissimo di talenti: Scorsese, Coppola, Cimino, De Palma, De Niro, Pacino, Pesci.

A Francis Coppola il giovane Bob De Niro dovrà il suo primo Oscar (da non protagonista) che nel 1974 è anche uno dei suoi primi exploit: il giovane Vito Corleone nel “Padrino Parte II”. Di suo, De Niro aggiunse una formidabile recitazione quasi tutta in siciliano (lingua appresa in poche settimane con tenacia perfezionista) e si incontra sul set con Al Pacino che, in qualche modo, sarà il suo antagonista storico sulla scena hollywoodiana. Ma un anno prima, nel 1973, era invece Martin Scorsese a cambiare la vita artistica dell’amico Bob, affiancandolo a Harvey Keitel nel suo film d’esordio “Mean Streets”. Il sodalizio tra i due divenne anche un’amicizia inossidabile, punteggiata da ben otto film tra cui il formidabile “Taxi driver” (quasi un manifesto generazionale) e quel “Toro scatenato” che nel 1981 valse a De Niro il suo secondo oscar, questa volta da protagonista. Gli anni ’70 dell’attore erano già stati un decennio di successi ogni volta più eclatanti, vere sfide a se stesso secondo i dettami del “Metodo Strasberg”: “Batte il tamburo lentamente”, “Novecento”, “Gli ultimi fuochi”, “New York, New York”, “Il cacciatore”, “L’assoluzione”. Se il trionfo popolare viene dal “Cacciatore” con Michael Cimino a orchestrare l’imperdibile duetto con Meryl Streep, è invece l’incontro con Bernardo Bertolucci a far crescere ancora la maturità espressiva di De Niro.

E non è forse un caso che pochi anni dopo la saga di “Novecento” (1976), De Niro si ripeta agli ordini di un altro italiano, Sergio Leone, per una saga di analoga potenza epica come “Cera una volta in America” (1984). Sono così tante e spesso così potenti le interpretazioni di De Niro a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 che il solo elenco trasforma una riflessione critica in una Guida Monaci. Basti citare l’Al Capone de “Gli intoccabili” (1987) per De Palma, il tormentato conquistador di “Mission” (1986), il sofferto Frankenstein del film omonimo di Kenneth Branagh (1994), la summa di cultura “mafiosa” contenuta in “Sleepers” (1996) di Barry Levinson, due estremi della sua collaborazione con Scorsese come “Quei bravi ragazzi” (1990) e “Casinò” (1995) fino all’irresistibile parodia politica di “Sesso & potere” ancora di Levinson, al titanico scontro con Al Pacino in “Heat” di Michael Mann (1995), all’incontro con Quentin Tarantino in “Jackie Brown” (1997).

Dopo quella data qualcosa in lui si trasforma radicalmente. L’uomo sembra trovare una quiete interiore: dal 1997 è marito fedele di Grace Hightower, padre dei suoi due figli (altri tre ne ha da relazioni precedenti) e due volte nonno. L’attore riscopre quella vena comica che lo aveva rivelato agli esordi con De Palma come nell’autoironico “Terapia e pallottole” (1999) o nella popolarissima saga dei Fockers da “Ti presento i miei” (2000), fino all’incursione italiana di “Manuale d’amore 3” nel 2011. C’è infine l’uomo di cultura che diventa un posato professionista in doppio petto: uomo d’affari dal cuore generoso quando lancia il Tribeca Film Festival all’indomani della tragedia delle Twin Towers; regista sorvegliato fino alla mania della misura nell’opera d’esordio, l’autobiografico “Bronx” (1993) e nella bellissima, dolente spy story “The Good Shepherd” (2003) che apre una trilogia dedicata alle malefatte dei servizi segreti americani.

Adesso tutti lo aspettano atteggiato da mafioso in pensione nel “Malavita” di Luc Besson, ora che ha visto la sua carriera rilanciata dalla nomination all’Oscar per “Il lato positivo”. Ma si ha spesso la sensazione che il fuoco vitale, rabbioso, segreto di Bob De Niro arda ormai altrove, che la recitazione, il cinema stesso, non gli bastino più. Ha nominato il suo erede, Leonardo Di Caprio; ha chiarito che il regista a cui non potrà mai dire no resta l’amico Scorsese; ha visto il “suo” festival imparare a volare da solo fino a far concorrenza al Sundance del collega Redford; ha presieduto la giuria di Cannes e ricevuto la Legion d’Onore. Cosa può cercare ancora il figlio di molisani emigrati in America? Una volta ha detto “Il talento sta nelle scelte”; adesso il suo talento sta in una scelta che certamente non assomiglierà al suo passato.