Rogo Thyssen, attesa per la sentenza

TORINO – Più che mai peserà come un macigno, nell’aula della corte d’Assise di Torino dove è attesa la sentenza per il rogo alla Thyssengroup divampato nella notte del 6 dicembre 2007, l’assenza dei sette operai morti bruciati.
Nella novantina di udienze che dal 15 gennaio 2009 si sono succedute tra lacrime dei parenti, manifestazioni di solidarietà di chi da fuori ai cancelli reclamava giustizia e un serrato confronto-scontro tra accusa e difesa, in realtà loro (Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi) ci sono sempre stati. Sono stati portati nei cuori e in fotografia sulle magliette indossate da mamme, padri, fratelli, sorelle, amici tanti che non si sono persi una battuta per ottenere – hanno ripetuto più volte – non vendetta, ma giustizia. Se l’espressione non fosse stata tanto abusata, così come si configura giuridicamente questo processo, la sentenza potrebbe essere considerata la madre di tutte le sentenze in materia di incidenti sul lavoro.

Per la prima volta i pm (Raffaele Guariniello, Francesca Traverso e Laura Longo) contestano l’omicidio volontario con dolo eventuale aprendo, fosse accolta dai giudici, una fase del tutto nuova nel diritto sulle “morti bianche”. Altrettanto pesanti le richieste di condanna: 16 anni e mezzo per il principale imputato, l’amministratore delegato Herald Espenhahn (che risponde dell’ipotesi di reato più grave), 13 anni e mezzo per Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri, nove anni per Daniele Moroni, accusati invece di omicidio colposo con colpa cosciente. Non solo. I pubblici ministeri hanno anche chiesto un milione e mezzo di multa, il blocco e la revoca di finanziamenti e sovvenzioni, lo stop a qualsiasi pubblicità per un anno, la pubblicazione della sentenza sui quotidiani internazionali e 800 mila euro come “prezzo del reato”. A tutto questo si aggiunge l’apertura di un’inchiesta su presunti testimoni falsi, una decina, portati dalla difesa. “Un processo politico” ha tuonato nei giorni scorsi Andrea Garaventa, uno dei legali della difesa; un’accusa “assurda” ha aggiunto il collega, Franco Coppi: sarebbe come dire – ha detto spiegando il suo punto di vista – che l’amministratore delegato “avrebbe dovuto accettare che si verificasse il tragico evento e non solo prospettarlo. Ammetterlo significherebbe dire che è un assassino”.

Per l’accusa, invece, Espenhahn, descritto in aula da tutti come “persona colta e tecnicamente preparata”, si è disinteressato dello stabilimento torinese che aveva deciso di chiudere entro l’anno rinunciando a investire nella sicurezza antincendio, accettando così il rischio di un disastro, confidando a torto solo sulla “buona sorte”.